HomeBuon climaL’Italia ha bisogno di una legge sulle filiere: per il settore tessile, ma non solo

L’Italia ha bisogno di una legge sulle filiere: per il settore tessile, ma non solo

VOTO.

L’origine di un prodotto è diventata un aspetto importante per molti consumatori e consumatrici quando fanno acquisti. Soprattutto quando si tratta di generi alimentari, molte persone prediligono i prodotti locali. Per molti altri prodotti, la questione della regionalità è invece un po’ più complessa: una borsa, una camicia, un aspirapolvere ecc. provengono veramente dal Paese indicato sull’etichetta “Made in …”? In altre parole, la produzione è avvenuta davvero interamente nel Paese indicato, dall’estrazione della materia prima fino all’ultima rifinitura? Sotto sotto, sappiamo tutti che ciò è assai improbabile. Il cotone non cresce in Veneto e il litio per le batterie dei nostri apparecchi elettrici non viene certo dal Tirolo. L’etichetta con la dicitura “Made in …”, che troviamo sui nostri capi di abbigliamento, ma non solo, si limita a indicare il Paese in cui è stato dato il tocco finale al prodotto. Questo è il Paese che viene poi dichiarato come luogo di produzione.

La tipica domanda che viene da porsi è quindi la seguente: che viaggio ha fatto, ad esempio, una maglietta con la scritta “Made in Italy” o “Made in Germany”? Come si svolge la filiera dalla produzione del cotone fino al prodotto finito?

Secondo la Fair Fashion Guide, un’iniziativa sostenuta dall’Ufficio federale tedesco per la cooperazione e lo sviluppo economico, la produzione di una maglietta di cotone attraversa le seguenti fasi: la “genesi” di un prodotto comincia sempre dalla materia prima. Nel caso di una maglietta, molto spesso si tratta di cotone. Il cotone si coltiva soprattutto nelle zone subtropicali dell’Africa o lungo
le sponde del lago d’Aral, tra il Kazakistan e l’Uzbekistan. Da lì il cotone viene trasportato in una filanda, che in molti casi si trova in India. In una terza fase, il filato viene poi trasformato in tessuto, di solito in Cina, dove viene anche sbiancato e tinto. In Bangladesh o nell’Europa dell’Est, i capi vengono poi cuciti. Infine la nostra maglietta viene spedita verso la sua destinazione finale, nel nostro caso l’Italia, dove viene venduta al dettaglio. Queste fasi intermedie sono fino a un certo punto inevitabili. Per molti articoli di uso quotidiano è praticamente impossibile gestire a livello locale l’intera catena produttiva dalla A alla Z. Ciò non significa tuttavia che le aziende che commissionano e, alla fine, distribuiscono il prodotto finale possano sottrarsi alle loro responsabilità.

Purtroppo però in Italia e in molti altri Paesi europei esse riescono a farlo fin troppo facilmente. Queste aziende sono solite scaricare sui loro fornitori la responsabilità dello sfruttamento delle
persone e dell’ambiente. Occhio non vede, cuore non duole. Questo spiega come sia possibile che il lago di Aral si sia ridotto a meno della metà delle sue dimensioni originali a causa delle enormi
quantità d’acqua consumate per la coltivazione del cotone. O ancora, come sia possibile che, a causa dello spargimento di pesticidi sui campi di cotone che circondano il suddetto lago, quella regione abbia il più alto tasso di tumori all’esofago a livello mondiale, come denunciava il settimanale “Der Spiegel” già nel 2004. Per non parlare poi delle numerose violazioni dei diritti umani nelle filande e nei vari sweatshop in Cina e in Bangladesh. Quando poi si verifica un tragico incidente come il crollo dell’edificio Rana Plaza in Bangladesh, le aziende occidentali promettono all’unisono di migliorare e di innalzare gli standard. Nell’edificio in questione erano presenti anche catene di moda italiane. Purtroppo da allora nulla è cambiato.

Sempre più Paesi europei si stanno rendendo conto che devono assumersi le proprie responsabilità e che le aziende devono impegnarsi a garantire il rispetto dei diritti umani e degli standard
ambientali lungo tutta la loro filiera. Così è avvenuto, ad esempio, in Francia nel 2017 con la legge sulle due diligence aziendali (“Loi relative au devoir de vigilance des sociétés mères et des
entreprises donneuses d’ordre”). Questa legge mira a obbligare le imprese francesi a identificare i rischi di violazione dei diritti umani e di danni ambientali lungo le loro filiere. Inoltre esse sono tenute a prevenire questi rischi e a rendere conto del loro operato all’opinione pubblica. In caso di mancato rispetto di tali obblighi, sono previste pesanti sanzioni pecuniarie. Si tratta fino ad oggi di una legge unica nel suo genere.

Ma anche altri Paesi stanno seguendo l’esempio: il Belgio, i Paesi Bassi e la Finlandia hanno promosso normative di questo tipo per singoli settori economici come la produzione del cacao o per
reati specifici come il lavoro minorile.

Proprio perché viviamo in un mondo globalizzato, dobbiamo agire in modo responsabile. A questo punto, spesso si fa appello ai consumatori e alle consumatrici finali, che con le loro scelte hanno il potere e il dovere di indirizzare il mercato in una o nell’altra direzione. Tuttavia ciò è possibile solo a condizione che i consumatori e le consumatrici siano in grado di seguire passo dopo passo una complessa catena produttiva e che possano contare su standard di sicurezza affidabili.

Per questo motivo è giunto il momento che lo Stato italiano agisca ed elabori una propria legge sulle filiere al fine di prevenire le violazioni dei diritti umani e i crimini contro l’ambiente.

 

Pertanto il Consiglio della Provincia autonoma di Bolzano sollecita Governo e Parlamento

  1. a elaborare una legge sulle filiere per le imprese italiane che le obblighi a garantire il rispetto dei diritti umani e della natura lungo tutta la loro catena di approvvigionamento, dal reperimento della materia prima fino alla realizzazione del prodotto finale;
  2. a prevedere esplicitamente, in fase di stesura di tale legge, che si tenga conto del rispetto dei diritti umani e della natura.

BZ, 09.03.2020

Cons. prov.
Brigitte Foppa
Riccardo Dello Sbarba
Hanspeter Staffler

 

Il 30.06.2021 il voto è stato accettato con questo emendamento:

La parte dispositiva è così sostituita:

“1) ad adottare provvedimenti legislativi per impedi-re, in collaborazione con le associazioni imprendi-toriali e quelle dei consumatori, il dumping salaria-le, sociale e ambientale nelle importazioni di mate-rie prime, prodotti, beni commerciali e servizi.”

f.to consiglieri provinciali
Brigitte Foppa
Gerhard Lanz

Author: Heidi

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